Perché la psicoterapia dovrebbe occuparsi di Politica?
La politica entra nella quotidianità della nostra vita, influenzando concretamente e profondamente il nostro benessere psicofisico
Ciascun individuo è essenzialmente e inevitabilmente condizionato dal mondo in cui vive, dalla comunità, dal gruppo di cui egli costituisce una parte.
La politica attraversa ognuno di noi, è linfa per l’immaginario sociale e modo di concepire e regolare i rapporti tra individuo e comunità; genera ed è generata dalla cultura.
Contribuisce a modellare gli schemi mentali che regolano la relazione uomo-mondo ed è strumento di partecipazione alla cosa pubblica.
La politica entra nella quotidianità della nostra vita e inevitabilmente influenza il nostro rapporto con gli altri e dunque il nostro benessere psicofisico.
Lo psicologo Richard Brouillette, attraverso esempi concreti tratti dalla vita quotidiana dei suoi pazienti, ci offre una riflessione sul legame tra politica e salute mentale e sull’importanza del ruolo della psicoterapia, nell’aiutare i pazienti a esercitare un pensiero critico e dunque un’azione, su un aspetto così pregnante della vita.
Di seguito un estratto dal suo articolo pubblicato sul New York Times:
“Perché gli psicoterapeuti dovrebbero parlare di Politica”
(tratto da ” Why Therapists Should Talk Politics” *)
“Più tardi incontrerò il mio capo”, disse il mio paziente. “ Sono preoccupata che mi dirà che non sto lavorando sodo come gli altri e che dovrei offrirmi volontaria, lavorare più ore, per mostrare il mio impegno”.
Questa tensione si è costruita nel suo luogo di lavoro per mesi e lei ha paura che ci sia una tacita minaccia in questo incontro: lavora più ore, non pagata, o ti manderemo via. Per lei era già faticoso spendere così tante ore lontano da casa. Ma non poteva rischiare di rimanere senza lavoro.
“Cosa dovrei dire ai miei bambini” chiese, disperata.
Sentii un nodo allo stomaco. Queste preoccupazioni stanno diventando sempre più frequenti tra i miei pazienti, così comuni che sento di concentrarmi sempre meno su problemi o nevrosi, specifici per alcuni pazienti, e sempre più su ciò che accade nella vita quotidiana.
Come psicoterapeuta, con uno studio privato a Manhattan, vedo molti professionisti ad inizio o metà carriera che si occupano di continue email, vincoli sociali, la cancellazione dei limiti tra lavoro/vita, salari che rimangono immodificati dalla fine degli anni 90.
Vedo impiegati che “invecchiano” (dai 30 anni in su) che ansiosamente provano ad adattarsi a un mercato del lavoro nel quale si deve cambiare lavoro ripetutamente e coltivare il proprio “marchio personale”. Nessuno usa tutte le proprie giornate di ferie. Tutti lavorano più a lungo di quanto avrebbe fatto la generazione passata.
In genere, i terapeuti evitano di discutere di questioni sociali e politiche durante le sedute. Se i pazienti le sollevano, il terapeuta dirigerà la seduta verso la discussione di sintomi, la capacità di affrontare i problemi, le questioni rilevanti dell’infanzia o della famiglia del paziente. Ma sto sempre più convincendomi che questo è inadeguato.
La psicoterapia, come branca, non è preparate a rispondere alle questioni sociali che stanno colpendo la vita dei nostri pazienti.
Quando le persone non possono far fronte all’aumento delle tasse dell’economia, si rimproverano e faticano nel vivere col senso di colpa. Si vede questa stessa tendenza in una varietà di contesti, dai bambini che vivendo il divorzio dei genitori si sentono responsabili della loro separazione, al sentimento di colpa in coloro che sopravvivono a dei disastri. Nelle situazioni che possono sembrare impossibili o inaccettabili, la colpa diventa una difesa dalla rabbia che altrimenti si proverebbe: il bambino potrebbe essere arrabbiato con i suoi genitori per il divorzio, il sopravvissuto potrebbe essere arrabbiato con chi è morto.
Non è differente ad un livello sociale. Quando un sistema economico o un governo è responsabile di un danno personale, coloro che ne sono colpiti possono sentirsi profondamente confusi e coprire questo senso di impotenza con l’autocritica. Oggi, se non si diventa ciò che il mercato vuole, si è difettosi e non si ha altra possibilità che diventare depresso.
Negli ultimi 30 anni, credo che questi cambiamenti sul posto di lavoro abbiano lentamente fatto molte vittime psicologiche, molte più che un eclatante evento traumatico, sebbene meno evidenti.
A un livello del quale non si può essere sicuri, le persone sentono meno speranza e più stress; la loro autostima è danneggiata; credono di essere destinati a prendere ciò che possono ottenere; stanno in uno stato vicino al senso di impotenza appresa.
Arriva un momento in cui le persone non possono più accettare questa condizione, quando gli viene chiesto troppo. Quanta colpa, diretta verso loro, possono tollerare le persone? Quando la rivolgeranno all’esterno?
La mia sensazione è che gli psicoterapeuti stanno giocando un ruolo significativo nel dirigere questa colpa verso l’interno. Sfortunatamente giacché molti terapeuti non sono stati formati ad occuparsi di questioni politiche sono parte del problema, implicitamente rinforzano false premesse sulla responsabilità personale l’isolamento e lo status quo sociale.
Se il paziente descriverà una situazione di lavoro pressoché intollerabile, il terapeuta tenderà a focalizzarsi sulla natura della risposta del paziente alla situazione, implicitamente trattando la situazione in sé come immodificabile, un fatto di vita. Ma un ambiente insostenibile o ingiusto non è sempre solo un fatto di vita, e un terapeuta deve considerare come parlarne esplicitamente.
Questo è un vecchio dilemma della psicoterapia. La terapia dovrebbe sforzarsi perché il paziente si adatti o aiutarlo a prepararsi a cambiare il mondo attorno a lui? È il mondo interiore del paziente ad essere deviante o è il cosiddetto mondo reale che è andato storto? In genere è una combinazione dei due e un buon psicoterapeuta penso aiuterà il paziente a muoversi tra questi due estremi.
Quando i terapeuti focalizzano il dialogo solo sulla narrazione del loro paziente senza includere una discussione franca sui disagi sociali ed economici, rischiano di ridurre la psicoterapia ad uno strumento di controllo sociale. Potrebbe suonare eccessivamente polemico ma, considerate una proposta di governo fatta in Gran Bretagna lo scorso anno di mettere gli psicoterapeuti nei centri di lavoro per offrire consulenza ai disoccupati, con la possibilità per i disoccupati di subire una riduzione dei benefits se declinano il trattamento. In una simile situazione, la terapia potrebbe facilmente diventare un’arma dello stato, che cerca di “curare” la svogliatezza o la riluttanza al lavoro, limitando potenzialmente la consapevolezza sociale e politica su “coloro” a cui ciò serve.
Troppo spesso, quando il mondo è messo a soqquadro per ragioni politiche, i terapisti sono silenti. Invece il terapeuta dovrebbe ammettere questo fatto, essere di supporto al paziente, e discutere il problema.
È intrinsecamente terapeutico aiutare una persona a capire l’ingiustizia della sua situazione, riflettere sulla sua personale influenza e fare qualunque azione possa essere utile.
Quando mi trovo in questa situazione con un paziente, introdurrò nel dialogo l’idea che ciò che sta accadendo è ingiusto. Questo apre un’opportunità per esplorare come il paziente reagisce al fatto che è stato maltrattato, il che può essere rivelatorio e vitale per la terapia.
Tempo fa ebbi una paziente che aveva raggiunto un punto di rottura nella startup nella quale era impiegata. Nella sua terapia ha fatto grandi sforzi, per due anni, con l’idea che fosse possibile avere una comunicazione autentica nelle relazioni. La nostra terapia l’ha aiutata a trasformare la sua rabbia in una coraggiosa email di gruppo che portò al supporto di circa la metà dei suoi colleghi e indusse negoziazioni di lavoro con il capo esecutivo.
Il ruolo di supporto che la terapia gioca in simili situazioni può risultare per alcune persone più come un lavoro sociale, organizzativo, che un reale trattamento di salute mentale. Ma sarebbe sbagliato. I terapeuti devono considerare questa interazione politica nella stanza di analisi come inerente il processo terapeutico. I pazienti diventano motivati a cambiare il mondo attorno a loro come una soluzione a ciò che era diventato uno stressor interno.
Questa è un esperienza non solo di cambiamenti esterni ma interni, che porta nuova sicurezza in sé stessi e un senso di impegno che diventa parte del carattere del paziente.
Sareste sorpresi di quanto di rado accada alle persone che i loro problemi non siano colpa loro. Focalizzandosi sulla correttezza e la giustizia, un paziente può avere la possibilità di trovare ciò che va frequentemente perduto: l’abilità di aver cura di sé e di difendersi.
La colpa può essere rimpiazzata con una rabbia che fa chiarezza, se si lascia libero un desiderio di crescere, di rivolgersi all’esterno agli altri più che all’interno, se ci si si attiva per fare un cambiamento.
* L’articolo originale “Why Therapists Should Talk Politics” è consultabile al seguente link:
http://opinionator.blogs.nytimes.com/2016/03/15/why-therapists-should-talk-politics/