Fotografia e Psicologia
“La fotografia è sempre biunivoca. Racconta la realtà, ma è anche lo specchio di noi stessi…”
Ferdinando Scianna
Cartacee o digitali le fotografie consegnano all’eternità istanti più o meno significativi della nostra vita costituendo una vera e propria appendice della nostra memoria.
Così come ricordare è un processo attivo che risente del momento attuale così ciò che vediamo guardando un’ immagine, nella sua immobile staticità, cambia al mutare del momento storico in cui la guardiamo ed al mutare del nostro stato d’animo.
La fotografia richiama immediatamente il senso che più primeggia sugli altri: la vista.
La vista predomina sugli altri sensi ed allo stesso tempo si associa all’udito, all’olfatto, al tatto; infatti un’immagine può evocare ricordi legati ad una musica, ad un profumo, ad un contatto.
Fotografare, guardare una fotografia sono esperienze che istantaneamente ci mettono in contatto con il nostro mondo interiore col quale stanno in un rapporto di reciproca influenza.
Nel fotografare esprimiamo il nostro inconscio e viceversa nell’atto di guardare, decodifichiamo le immagini influenzati da esso. In questa ottica la fotografia diventa una preziosa chiave di accesso ai nostri vissuti profondi ed alle dinamiche che li sottendono.
Non stupisce dunque che la psicologia si sia interessata alla fotografia e ne abbia colto le potenzialità terapeutiche già a partire dal 1856 quando Hugh Diamond, fotografo amatore e psichiatra del Surrey, utilizzò le fotografie per promuovere effetti terapeutici positivi. I pazienti ai quali venivano mostrate fotografie che li ritraevano, diventavano più consapevoli della loro identità fisica e prestavano maggior attenzione alla loro apparenza, poiché la loro autostima era rafforzata ogni volta che vedevano una foto in cui stavano bene.
Successivamente nel 1965 un gruppo di psicologi e psicosociologi lionesi misero a punto il metodo del Fotolinguaggio®, costruendo una serie di dossier di fotografie in bianco e nero, su varie tematiche, testate, scelte e pubblicate in Francia per la loro valenza simbolica e per la loro capacità di stimolare l’attività immaginativa. Il Fotolinguaggio® utilizza la fotografia soprattutto nella sua valenza di immagine, intesa come mezzo di comunicazione e di introspezione e si è dimostrato utile in ambiti diversi e con utenza di varia tipologia. È un metodo di lavoro di gruppo in cui si scelgono una o più fotografie, tra quelle proposte, in base alla domanda posta dallo psicologo e poi se ne discute in assetto di gruppo.
Anche Carl Rogers, promotore della corrente umanista, utilizzò le foto come stimoli terapeutici ed ancora J. L. Moreno, il padre dello psicodramma, le usò come punto di partenza per le sedute di gruppo e così anche lo psicoanalista Heinz Kohut le utilizzò nel processo di valutazione e di diagnosi e per chiarire aspetti importanti dell’infanzia del paziente.
Nel 1975 Judy Weiser, psicologa e arte terapeuta, scrisse il suo primo articolo sulla “Fototerapia”, ossia sull’utilizzo della foto in terapia come mezzo di esplorazione di sé e del non verbale, soprattutto nei casi in cui è difficile la verbalizzazione ed in considerazione della valenza comunicativa più veritiera del non verbale sulle nostre emozioni e sul nostro inconscio. La fotografia ancora una volta si rivela facilitatore nella narrazione di sé e della storia del paziente, superando i limiti e le difese dei resoconti verbali.
Non solo la psicologia si è avvalsa della fotografia terapeuticamente ma anche i fotografi stessi, come nel caso della fotografa inglese Jo Spence che nel suo libro del 1986 “Putting Myself in the Picture: a political, personal and photographic autobiography”, racconta come sia passata da un utilizzo per fini commerciali della fotografia ad un utilizzo come strumento per fronteggiare problemi e difficoltà derivanti dalla sua malattia, un tumore al seno, sottolineando ancora una volta il legame tra fotografia e cura di sé.
Gli esempi sono innumerevoli, fino ad arrivare ai più recenti come il lavoro fotografico realizzato dal fotografo Walter Schels e dalla giornalista Beate Lakotta che hanno affrontato attraverso la fotografia il complesso tema della fine di vita.
Fotografia e gruppo: uno spazio per crescere
I laboratori esperienziali a mediazione fotografica realizzati dalla dott.ssa Laura Rugnone traggono spunto da queste acquisizioni teorico pratiche e nascono come virtuosa coniugazione del dispositivo di gruppo e della fotografia per la promozione del benessere dell’individuo.
Sono uno spazio di crescita personale in cui la fotografia diventa strumento per esplorare i propri vissuti, confrontarsi con l’altro, nutrire la capacità immaginitava, aprire nuovi spazi di pensiero.
Si rivolgono ad un massimo di 10 partecipanti adulti, dai 18 anni in su. Hanno una durata di un’ora e mezza durante la quale la fotografia viene utilizza nella sua accezione sia di strumento evocativo per accedere ai vissuti profondi che di facilitatore nel confronto con l’altro. Il lavoro di gruppo a partire dalle immagini fotografiche parte da un presupposto: la lettura che facciamo di una foto è una lettura soggettiva.
La lettura della fotografia che stiamo guardando è una delle tante che potremo dare, non è l’unica né la migliore o la più giusta. Tale lettura risente della “variabilità soggettiva”. Una stessa immagine si presta a tante letture quanti sono gli sguardi che la osservano. Come infatti bene sostiene la fotografa Gisele Freund “…se è vero che la fotografia traduce il reale, esso si rivela secondo l’occhio di chi guarda…”
“La fotografia è sempre un oggetto di relazione, un mezzo di scambio intrapsichico e intersoggettivo…è richiamo di segni di affetti e di emozioni simultaneamente evocate in una trama di ricordi, di pensieri e di parole…”
Renè Kaes
Momenti fondamentali del gruppo:
Formulazione di una domanda che, nella fase iniziale del laboratorio, viene proposta dal conduttore e che in seguito può essere elaborata a partire dalle tematiche emerse nel gruppo.
Scelta o realizzazione di una o più fotografie sulla base della consegna.
Scambio e condivisione in gruppo sulle fotografie scelte o prodotte.
Le fotografie fungono da luoghi di deposito dell’immaginario individuale e dell’immaginario gruppale e facilitano il confronto e lo scambio tra gli immaginari.
La condivisione in gruppo stimola l’attenzione, i processi di verbalizzazione e simbolizzazione. La creazione di un clima di fiducia e sostegno reciproco rafforza le funzioni relazionali ed apre a nuovi spazi di pensiero.
L’ascolto di punti diversi ed in confronto dialogico contribuiscono ad ampliare la capacità immaginativa e creativa.
Partecipare ad un laboratorio a mediazione fotografica significa dunque esercitare la propria capacità di ascolto di sé e dell’altro, ampliare la conoscenza di sé attraverso l’esplorazione dei propri vissuti in gruppo, migliorare la capacità di vivere contesti gruppali e di comunicare con gli altri, dare valore alla propria individualità nel confronto con l’altro ed allo stesso tempo sviluppare il proprio pensiero creativo grazie allo scambio col pensiero dell’altro.
Per informazioni e per consulenze:
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